14.9.2017 COMUNISMO IN ALBANIA ….

 
 

di FELICE ACCROCCA

Il regime albanese, l’ultimo a cadere tra quelli comunisti dell’E u ro p a dell’Est, fu, tra tutti, il più spietato nei confronti di coloro che considerava suoi nemici politici, in particolar modo con il clero cattolico impegnato in prima fila nella formazione culturale della gioventù. Enver Hoxha (19081986), giunto al potere nel 1944, aveva infatti instaurato nel paese un vero e proprio clima di terrore, generando — di conseguenza — un sospetto reciproco che ancora oggi, a più di venticinque anni dalla caduta del regime, produce i suoi effetti.
Dopo una prima fase cruenta, nel suo regime se ne aprì un’altra, non meno virulenta, nel 1967, quando venne indetta la lotta contro la «superstizione religiosa» (quanti libri e icone religiose, anche di notevole valore, furono dati alle fiamme), culminata nell’affermazione dell’ateismo di stato sancito dalla Costituzione del 1976, una “conquista” di cui l’Albania vantava il primato. Nessuna manifestazione religiosa era permessa e gli stessi bambini finivano spesso per diventare, a loro insaputa, strumenti della polizia segreta: con molta facilità, infatti, a scuola li si poteva indurre (bastava, ad esempio, un componimento del tipo: «Descrivi la tua serata in famiglia») a rivelare quanto accadeva in casa. Per questo i più piccoli venivano mandati a letto presto e nelle famiglie s’iniziava a pregare solo dopo che si erano addormentati, con l’ausilio di sentinelle all’esterno: sebbene in modo inconsapevole, i bambini potevano dimostrarsi dei traditori. Ciononostante in occidente pochissimi si sono interessati a quel che succedeva in questo piccolo lembo di terra ad appena un tiro di schioppo dall’Italia. I riflettori erano allora piuttosto concentrati sugli stati maggiori dell’Est europeo, mentre suscita tuttora poco interesse la storia dell’Albania, balzata al centro delle cronache italiane unicamente negli anni cruciali degli sbarchi a ripetizione, quando i gommoni partiti da Valona sbarcavano sulle coste pugliesi giovani in cerca di fortuna. Poco si sa, in effetti, di ciò che uomini e donne hanno sofferto in odium fidei fino a quando il regime non si sgretolò: solo il 4 novembre 1990 don Simon Jubani — poi nominato cardinale da Papa Francesco — poté infatti celebrare pubblicamente la messa nel cimitero cattolico Rrmaj, a Scutari, mentre il successivo 14 gennaio venne distrutta la statua che il dittatore stesso si era fatto erigere in piazza Skanderberg a Tirana. I due poderosi volumi del frate minore Leonardo Di Pinto ( Profilo storico agiografico di Mons. Vinçenc Prennushi e Compagni Ma r t i r i , per complessive 1070 pagine, con un prezioso corredo fotografico), pubblicati nel 2016 postumi dall’arcidiocesi metropolitana di Scutari-Pult, possono ora facilitare la conoscenza delle pagine più dolorose di questa dolorosa storia, vale a dire la vicenda dei trentotto martiri beatificati il 5 novembre 2016, morti sotto il regime di Hoxha per condanna capitale o a causa delle ripetute torture fisiche e psicologiche loro inflitte. Pagine tristi ed esaltanti insieme, dalle quali emerge la tragedia di un popolo che non ha avuto la sua Norimberga: in Albania, perseguitati e persecutori possono ancora incontrarsi per strada e magari scoprire che l’aguzzino di ieri ha saputo riclicarsi presentandosi come un sostenitore della democrazia. Una situazione che inevitabilmente finisce per mantenere alta la soglia del sospetto. Per me — che dal 1998 torno ogni estate in quel paese che considero ormai una seconda patria — è stato istruttivo e commovente assieme prendere confidenza con le vicende di queste persone: dei vescovi Vinçenc Prennushi e Frano Gjini, dei ventuno sacerdoti diocesani, dei sette frati minori, dei tre gesuiti, dei tre laici e di Marije Tuci, tutti perseguitati a motivo della propria fede. Marije Tuci, l’unica donna, arrestata nell’agosto del 1949, conobbe la durezza del carcere e ripetute torture anche per aver resistito alle avances del colonnello Hilmi Seiti: «Nel muro che ci separava — così nella testimonianza (vol. II , p. 424) di Ndue Ndoci, classe 1920, anch’egli detenuto nello stesso carcere della martire — era stato praticato con un chiodo, a una certa altezza, un foro. Io, parlandole sempre attraverso il foro, e dopo che mi disse che si chiamava Marije Tuci, le dissi di mettersi sotto quel filo di luce per poterla vedere meglio. Vidi che aveva il volto gonfio e le chiesi: “Come mai sei ridotta così?”. Mi rispose: “Mi hanno fatto tante iniezioni”». Marije Tuci fu detenuta a Scutari nella cella numero 13 dell’ex convento francescano di Gjuhadol, trasformato dal regime in centro del Sigurimi (i servizi segreti), luogo d’interrogatori e d’indicibili torture. Quel convento, situato proprio a due passi dalla cattedrale di Santo Stefano, aveva a lungo costituito un importante polo di formazione culturale ed era indubbiamente il centro vitale della presenza francescana in Albania; assieme al seminario, affidato ai gesuiti, formava l’élite culturale di tutto il nord del paese. In poco tempo la comunità francescana di Gjuhadol e la comunità dei gesuiti furono spazzate via con azioni abilmente orchestrate e le menti più vivaci e pensanti crudelmente stroncate: è il caso, ad esempio, del gesuita italiano Giovanni Fausti, vice-provinciale e tempra di studioso robusto, il quale, al termine di un processo farsa, venne fucilato presso il cimitero cattolico di Scutari, o del francescano Vinçenc Prennushi, poi vescovo di Sapa e quindi arcivescovo di Durazzo, nonché uno dei maggiori poeti albanesi del Novecento, morto in carcere a seguito delle torture subite. Di molti di questi martiri si è persa traccia delle spoglie mortali: così fu, tra gli altri, per don Anton Zogaj, parroco di Durazzo e segretario di monsignor Prennushi, fucilato in località Spitalla; seppellito sotto poca sabbia, presto rimossa dai cani randagi, il suo corpo fu sepolto da alcuni contadini su una vicina collina, in una zona dove poi sono state edificate delle abitazioni, cosa che ha reso impossibile individuare la sepoltura. A molti altri, i cui corpi furono profanati o gettati nelle fogne, andò ancor peggio: sono tuttavia rimasto colpito dalla vicenda di don Zogaj perché più volte sono stato a Spitalla e mi turba il pensiero di aver potuto calpestare i suoi resti senza neppure rendermene conto. Sappiamo però che Dio scrive dritto nelle righe storte degli uomini. Il convento francescano di Gjuhadol eletto dal Sigurimi a propria sede, è oggi abitato da una comunità delle Sorelle povere di santa Chiara d’Assisi (quattro albanesi e due italiane), partite dal monastero di Otranto per impiantare in terra albanese il carisma clariano: dove prima si udivano urla di disperazione di dolore ora s’innalza il canto della lode. Saprà l’Albania fronteggiare le sfide del tempo presente (bene evidenziate da monsignor Massafra, arcivescovo di ScutariPult, nella sua introduzione)? Senz’a l t ro una corretta memoria del passato potrà aiutarla nel suo percorso. Possa dunque la lettura di questi due importanti volumi «far vibrare ancora i cuori degli Albanesi» (vol. I, p. 9).